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La dolce vita e la censura cinematografica

Se volessimo stilare un elenco delle scene più iconiche del cinema italiano difficilmente potremmo ignorare quella girata all’interno della fontana di Trevi, presente ne La dolce vita (1960) di Federico Fellini. Le immagini che ritraggono la splendida Sylvia (Anita Ekberg) camminare nell’acqua, seguita dal malinconico Marcello (Mastroianni), sono entrate prepotentemente nell’immaginario cinematografico mondiale.

Marcello, come un re taumaturgo, impone le mani sul corpo della donna. Rimane immobile per qualche secondo, con uno sguardo ambiguo, a metà strada tra il desiderio e la rassegnazione. Improvvisamente l’acqua smette di sgorgare e un silenzio di sogno si sostituisce ai gorgoglii.

Faticosamente potremmo trovare un esempio così calzante per rappresentare l’essenza del cinema autoriale italiano, un cinema che dal dopoguerra in poi ha solcato un sentiero dorato.

Con la conclusione del secondo conflitto mondiale l’arte cinematografica italiana germogliò rigogliosa grazie ai lavori dei neorealisti. La moneta scarseggiava e il grande sito di Cinecittà era inagibile, e questa instabilità influenzò le scelte dei registi, i quali realizzarono dei film estranei ai tipici canoni del cinema del ventennio fascista (da Goffredo Alessandrini a Enrico Blasetti). Si decise infatti di mostrare gli orrori della guerra e della povertà e spesso vennero utilizzati attori presi letteralmente dalla strada (come in Ladri di biciclette) per infondere nelle pellicole quella patina di realismo necessaria per gli scopi sperati.

Seguì il lungo processo di ricostruzione, sospinto dagli aiuti americani del Piano Marshall, e verso la fine degli anni ‘50 esplose il miracolo economico italiano. In questo frangente emersero i grandi autori borghesi, spesso fortemente critici della classe economico-sociale cui appartenevano: il classicheggiante e antropologico Luchino Visconti, il freddo e tecnico Michelangelo Antonioni, e lo stesso Fellini, romagnolo d’oc che iniziò la carriera come aiuto-regista di Rossellini. 

Dopo i lavori del primo periodo (Luci del varietàLo sceicco bianco, I vitelloni) Fellini approderà ai film della maturità: opere per lo più autobiografiche segnate dalla necessità di indagare le angosce della contemporaneità. 

Il protagonista assoluto de La dolce vita è Marcello, un raffinato giornalista in crisi esistenziale: egli avrebbe voluto essere uno scrittore e invece si ritrova a partorire incessantemente articoli per riviste scandalistiche, perennemente circondato da una nuvola di fotografi, suoi collaboratori, tra i quali spicca l’amico Antonio Paparazzo (scommetto che il cognome non vi è nuovo). 

Questa cinica ed elegante figura, immortalata dalla fotografia dai toni argentei di Otello Martelli, vaga attraverso “una Roma corrotta e corruttrice”, bazzicando i locali più in voga e intrattenendosi con le celebrità sulla cresta dell’onda. 

L’anima persa di Marcello trova degli sporadici momenti di cura nella frequentazione del candido intellettuale Steiner, ma questo antidoto alla vita mondana si esaurirà bruscamente col suicidio dell’amico, anch’egli flagellato da profondi tormenti.

All’uscita nelle sale la pellicola destò le aspre critiche della Chiesa cattolica, che nelle quasi tre ore di girato scorgeva un diseducativo elogio del più volgare libertinaggio ateo. Furono davvero poche le voci che si levarono per apologizzare il film, e tra queste spicca quella di Padre Nazareno Taddei, un gesuita milanese che recensì favorevolmente il film in un’edizione di Letture del marzo 1960. Inutile dire che questo coraggioso ecclesiastico venne costretto dalla gerarchia cattolica, che persisteva nel tentativo di bloccare le proiezioni dell’opera, al silenzio.

Nella sua furente crociata in nome della censura, la Chiesa commise un memorabile errore interpretativo, in realtà abbastanza tipico nel contesto dell’esegesi cinematografica, e questo abbaglio venne evidenziato in primis dalla recensione che Pier Paolo Pasolini pubblicò sulla rivista Il Reporter: “Soltanto delle goffe persone senza anima – come quelle che redigono l’organo del Vaticano – soltanto i clerico-fascisti romani, soltanto i moralistici capitalisti milanesi, possono essere così ciechi da non capire che con La dolce vita si trovano davanti al più alto e al più assoluto prodotto del cattolicesimo di questi ultimi anni.”

L’intellettuale, da sempre interessato alla qualità del “sacrale” (che poi rintraccerà nel mito e nelle religioni primitive) aveva decifrato correttamente il senso dell’opera felliniana, la quale, lungi dall’assecondare le orge e le ubriachezze mostrate, condanna a spada tratta la dissolutezza della borghesia romana. 

Pasolini fa notare come tutti i personaggi del film siano vanesi, egocentrici, meschini e banali. Insomma: una sfilata carnevalesca della presunzione e della scioccheria della “società dello spettacolo” (locuzione che verrà usata, qualche anno dopo, da Guy Debord per titolare un famoso saggio marxista). 

Se poi tutto ciò non bastasse, la pellicola di Fellini ci presenta un finale magistrale, nel quale il simbolismo onirico che caratterizza anche altri suoi film (Otto e mezzo e Amarcord in testa) deflagra in tutta la sua brillantezza. Dopo l’ennesima nottata di bagordi, la comitiva di Marcello raggiunge una spiaggia del litorale romano, ed improvvisamente si scorge un’apparizione mostruosa: il cadavere gelatinoso e luccicante di una grande manta. Il corpo dell’animale viene ripreso in tutta la sua orridezza lovecraftiana, e la scena viene coronata con un primo piano sull’occhio nero della bestia grottesca (così come, nello stesso anno, Hitchcock riprenderà lo sguardo vuoto della prima vittima dell’assassino in Psycho, aggiungendo però un virtuosistico movimento di macchina non conforme alla poetica del regista italiano).

Improvvisamente una voce richiama, dalla distanza, l’attenzione di Marcello: è Paola, una ragazza incontrata precedentemente dal protagonista, la quale grida qualcosa, ma il frastuono della marea impedisce all’uomo di raccogliere il messaggio. Il giornalista alza le spalle con fare indolente e si avvia rassegnato col resto del gruppo.

Gli indizi del sacro e i rimandi cristologici, disseminati lungo tutto il corso della pellicola come le briciole di pane di Hansel e Gretel, vengono in questa scena finale raccolti ed evidenziati. La fanciulla simboleggia la grazia divina: è una piccola Madonna venuta ad annunciare a Marcello la possibilità di una vita giusta e sincera, ma egli non è ancora pronto ad accogliere il messaggio di salvezza ed è ignaro della pericolosità del mostro marino, che rappresenta proprio il vortice freddo e buio della “dolce vita”. 

La contraddizione interpretativa nella quale incappò la Chiesa italiana risiede nell’implicitezza del messaggio felliniano, nello scollamento tra le immagini mostrate e lo sforzo esegetico che lo spettatore deve compiere per decodificare il senso dell’opera. Alle recensioni cattoliche si potrebbe concedere che il simbolismo del regista romagnolo si caratterizza di un certo ermetismo, ma al contempo dobbiamo ammettere la presenza, dal primo all’ultimo fotogramma, di un’atmosfera angosciante, che si fa sempre più serrata quando Marcello perde i pochi punti di riferimento posseduti, a partire da Steiner. Questo clima oppressivo si riflette nelle varie figure presenti nella pellicola, le quali, incise in una deformazione caotica, spesso parlano da sole, in un monologo ossessivo, con lo sguardo perso nel vuoto oppure diretto in basso. 

Simili aneliti alla censura, ottusi non perché esagerati ma per il risultato controproducente che determinano, contraddistinguono la storia di quel “lucernario sull’infinito” (Noel Burch) che è il cinema. 

Arancia Meccanica (1971) di Stanley Kubrick fu trasmesso dalla televisione italiana per la prima volta nel 1999, con un ritardo di circa trent’anni. Il film era stato interpretato come un saggio di sadismo gratuito, ma in realtà la pellicola, oltre a possedere una grammatica cinematografica perfetta (come tutte le opere di Kubrick), apre a profonde riflessioni sul libero arbitrio e sull’autorità, e getta uno sguardo impaurito verso un probabile futuro distopico del quale certamente non si compiace. 

Più di recente sono stati i lavori di Quentin Tarantino ad esser stati posti sotto la lente d’ingrandimento della censura, per motivazioni analoghe a quelle di Arancia meccanica: sono stati accusati di esaltare una violenza eccessiva, volgare, quasi pornografica. Tuttavia, chi compie queste considerazioni non si rende conto che la violenza del regista americano è chiaramente caricaturale, fumettistica e sopra le righe. Così come l’ideologia di Fellini non si identifica con gli sprechi e coi peccati dell’edonismo romano, ma piuttosto ne condanna le frivolezze tramite una “satira in grande scala”, il meta-cinema ironico e citazionista di Tarantino, a sua volta, non si esaurisce nella banale glorificazione della brutalità più schizofrenica, ma parodia i tipici prodotti dell’intrattenimento americano col fine di trascenderli in un risultato ben più raffinato delle singole parti di cui si compone. 

Alessandro Gaetani