Associazione VivArte

La birra circolare

Abbiamo vissuto per centinaia di anni al di sopra delle nostre possibilità, consumando risorse che non ci appartenevano. Ci troviamo ora con l’obbligo di dover cambiare, innovare per mantenere uno status sociale, un benessere a cui non sappiamo rinunciare.
Mobilità a zero emissioni, con auto elettriche, monopattini, forse presto treni ed aerei ad idrogeno, grandi aziende che cercano di azzerare il loro impatto energetico, riciclo e nuovi materiali biodegradabili. C’è un settore però che da solo conta un terzo delle emissioni: la produzione alimentare. Appare evidente come di tutte le rinunce che un individuo possa fare cambiare radicalmente il proprio regime alimentare sia la cosa più ardua. Ad esempio, si può rinunciare ad una birra?
Ecco che l’ingegno inizia a mettersi in moto per rendere sostenibile l’inesorabile trangugiare di questa bevanda insostituibile.
“Una birra salverà il mondo” dicono dal Biova Project. La Biova è un tipico pane piemontese cotto nei forni a legna delle valli occitane ed ora è anche il nome di una birra. Una birra particolare ottenuta proprio dal pane, merce invenduta che andrebbe sprecata. 

Questo incredibile progetto è stato ideato da tre ragazzi piemontesi: Enrico Ponza e Fabio Ferrua, due mastri birrai, e Franco Dipietro, un regista. L’idea era di creare un prodotto che avesse una storia tutta sua da raccontare ed ovviamente di non inseguire un modello economico che tenesse in considerazione solo il profitto.
Attualmente 150 chili di pane non consumato vengono trasformati in 2500 litri di birra artigianale, risparmiando così anche 30% di malto d’orzo e 1465 kg di CO2. Il progetto permette alle aziende di partecipare diventando rivenditori autorizzati della birra Biova o fornitori di materie prime, abbattendo gli sprechi alimentari. In Italia, ogni giorno, vengono buttati 13mila quintali di pane. Secondo uno studio dall'Associazione Internazionale del Panificio Industriale, il consumatore medio italiano consuma 52 chilogrammi di pane all'anno. Perciò, con il pane scartato ogni giorno, si potrebbero alimentare 25 mila persone l’anno, oppure… produrre quasi 8 miliardi di litri di birra.

C’è poi qualcun altro, Trebo, che racchiude il proprio essere nel motto “Mangia la tua birra”.
La start-up romagnola si occupa di valorizzare i sottoprodotti dell’industria birraria, raccogliendo le trebbie, malto d’orzo esausto, dai microbirrifici, trasformandole in farine. Ogni 100 litri di birra si scartano 20 chili di trebbie, uno “scarto” che esce dal ciclo di produzione ma che conserva qualità nutrizionali considerevoli. In Italia se ne producono quasi 200mila tonnellate l’anno, di cui solo il 30% viene riutilizzato, perlopiù in zootecnia.

Dalle farine di birra, ricche di proteine e fibre, non sono solo ottenibili nuovi prodotti alimentari bensì bioplastiche, carta, pelle vegetale. Pensate che in Italia vengono prodotte 1.320.000 tonnellate di trebbie, dunque montagne di nuove possibili materie prime che attualmente gettiamo. 

Lo stesso approccio di valorizzazione di un sottoprodotto, che può dunque diventare a sua volta ingrediente di pregio, si applica ai lieviti che, esaurito il loro lavoro per la fermentazione birraria, si riutilizzano per sfruttarne le componenti nutrizionali benefiche, come le vitamine del gruppo B.

Oltre alla circolarità nella produzione sono sempre di più i birrifici che decidono di investire per essere energeticamente sostenibili. Nel processo di produzione è richiesto un fabbisogno consistente di energia per generare calore. Le fasi di efficientamento sono due: ottenere l’energia necessaria da fonti rinnovabili e sfruttare al meglio il calore, non disperderlo ed evitare sprechi inutili. Proprio per questo ultimo punto, con l’impiego di moderne pompe di calore e di stabili efficientati si riesce a conservare il calore della produzione e ad utilizzarlo per il riscaldamento ordinario degli ambienti.

Ultimo passo il miglioramento del packaging, con l’impiego di bottiglie serigrafate per eliminare l’etichettatura. 

I birrifici si configurano così come un modello di buona pratica produttiva a 360°, mostrando all’intera filiera dell’agroalimentare che le soluzioni esistono, sono attuabili e addirittura convenienti.

Riccardo Rocchi